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Cinque giovani musicisti che scrivono e cantano i loro giorni di sole e le loro solitudini, liberi da costruzioni musicali o liriche preconcette". Degli Omerthà parlava così Rockit.it, il celebre sito dedicato alla musica e ai suoi protagonisti. Loro, una band made in Calabria, di quelle che non le mandano a dire, erano sulla cresta dell'onda. La data in cima all'articolo fa pensare ad un tempo e ad un luogo lontani: 27 agosto 1998. Chi è nato in quell'anno, oggi, può spegnere già 14 candeline. E tutto quanto, in questo lungo lasso di tempo, dovrebbe essere cambiato. Il concetto, però, non vale per questa terra, per questo pezzo di mondo, la Locride, che è altro dall'Italia, altro dalla stessa Calabria. Non per scelta, per costrizione, forse, o per rassegnazione. Loro lo cantavano nelle loro canzoni, lo urlavano con sdegno e senza vergogna. Sputavano rabbia nelle loro parole, nemmeno un po' censurate per fare un piacere a mamma e papà. Avevano i capelli lunghi e l'orecchino, destando scandalo e indignazione. E per questo il loro sorriso si allargava più soddisfatto sul loro volto, un volto che voleva distinguersi dalla massa.
Ma stavamo parlando di musica. Gli Omerthà, dicevamo, vedono la luce alla fine degli anni '80. Cinque amici che amano la musica, impugnano i loro strumenti e salgono su un furgone per girare l'Italia. E la girano, in lungo e in largo, portando la loro musica e, soprattutto, il loro dialetto in ogni regione della nostra penisola. Niente di che, verrebbe da dire. Ma se fai rock, quel rock che in Calabria allora nessuno faceva e che ancora oggi in pochi fanno o sanno fare, allora tutto cambia. Dai palchi di tutt'Italia loro denunciavano l'apatia, il disagio sociale, la rassegnazione di una terra intera. I testi erano frutto di un lavoro corale, che coinvolgeva più persone. Una sorta di grande famiglia, affermavano loro stessi, una famiglia fatta di gente che attraversava le loro vite e contribuiva al loro lavoro. Le note, poi, le sputava fuori la terra, l'aria stessa, nascevano dal loro vissuto. Macinavano sensazioni contraddittorie, modi diversi di inserirsi nella realtà, cose che si trovano tutte nei due Lp e nel singolo partoriti dalla band. "Importé d'Italie" è uscito nel 1995 con l'etichetta indipendente cauloniese "Tharock record". Poi è stata la volta del singolo "Zombi power", uscito nel 1996 con l'etichetta romana "Equipe". L'ultimo disco è "Sulinta", uscito nel 1998 con la major "Rti", diventata col tempo "Sony music" e distribuito in tutta Italia. Poi, nel 1999, tutto finisce.
L'ex cantante degli Omerthà torna sul palco e "infiamma" Catanzaro con i vecchi pezzi.
Ma di quei cinque ragazzi oggi, ancora, qualcosa rimane. Lo ha dimostrato Domenico Panetta, che di quel gruppo era il cantante. Lo ha dimostrato continuando a nutrirsi di musica, producendo e realizzando dischi con alcuni dei gruppi più importanti del panorama musicale calabrese, come QuartAumentata, Mimmo Cavallaro e Marvanza Reggae Sound. Lo ha fatto continuando a scrivere musica, anche per altri, come "U jocu di l'amuri", ritenuta da molti la canzone più bella del nuovo disco realizzato da Mimmo Cavallaro, Cosimo Papandrea e Taranproject insieme a Marcello Cirillo, "Rolica", registrato negli studi del "NunuLab" di Mammola. E poi ha messo in piedi un progetto, "Lo chiamavano Omerthà - la vera storia di Domenico Sisto". Ha preso in mano la sua chitarra ed è salito di nuovo su un palco, "rispolverando" i vecchi pezzi del suo gruppo e nuove canzoni ad hoc. Lo ha fatto a Catanzaro, il 4 maggio scorso. Al suo fianco non c'erano quei quattro "ragazzacci" che lo hanno accompagnato in quel percorso chiamato "Omerthà". C'erano, però, altri quattro artisti che, come loro, non le mandano a dire, quattro animali da palcoscenico, che in venti minuti hanno zittito scettici e malpensanti. Sul palco c'erano tutti gli ingredienti di quei cinque giovani di Caulonia che giravano l'Italia. E poi c'era l'ironia, scoppiata con una "Calabrisella Revolution" che ha fatto sorridere tutti quanti. La voce di Panetta si è fatta largo nel vento che avvolgeva, come sempre, Catanzaro. «Nel 1990 avevo 17 anni, sono nato in un piccolo paesino della Calabria, dove se porti i capelli lunghi non va bene, dove se porti l'orecchino non va bene - ha esordito - Nel 1990 io con altri quattro ragazzi, capelli lunghi e orecchini, ho scritto questa canzone: parla del mio piccolo paese, Caulonia. Il mio gruppo, nel 1990, si chiamava Omerthà, una parola che significa silenzio. E con questo nome, in giro per l'Italia, non facevamo silenzio, facevamo tanto rumore». Ed è partita proprio quella canzone, "I soliti cosi", che tanto rappresenta questo gruppo.
Questa volta la chitarra la inforcava Vincenzo Oppedisano, che ha squarciato l'attesa e la curiosità dei presenti. Il sax di Francesco Scordamaglia ha graffiato l'animo dei presenti, che con la mente tornavano a quei giorni degli anni '90. La cassa e il rullante aggrediti dalle mani di Federico Placanica hanno fatto a gara con il battito dei cuori in piazza. E poi c'era lui, il maestro Peppe Platani al basso, le cui note sono entrate nello stomaco, risalendo verso la gola e spingendo tutti a cantare. Anche chi non sapeva le canzoni. Lui, Domenico "Sisto" Panetta era lì, davanti al microfono. Se n'è rimpossessato, portando con sé anche un pezzo di quel glorioso passato.